NONA OPERA

Oltre i confini dell’odio e dell’indifferenza.

Il piano verticale presenta una frattura lungo la sua linea di simmetria.

Tale linea individua due realtà.

Da una parte è stilisticamente rappresentata una civiltà contemporanea pseudo – evoluta, immersa in un fittizio “benessere” e piena di problemi logistici connessi alla sua vera natura.

Anche questa realtà, al pari di quella degli emettitori, è disegnata con il lapis poiché originata da strutture artificiali destinate a implodere, prima o poi, sotto il peso delle loro stesse responsabilità.

Di fronte a questa porzione di piano sono situate due figure materiche rappresentanti un padre con il figlio.

Entrambi sono immersi in uno strato di macerie e detriti provenienti da una situazione antropica non più in grado di assorbire i propri incomodi rifiuti.

Il papà è smarrito è indigente al pari di un vagabondo, ormai vittima della tanto decantata società civilizzata.

Il bambino, però, cerca un legame con l’altra realtà, quella meno “civilizzata” posta dietro la tela ma con contorni ancora visibili.

Egli afferra la mano di un altro bambino posto dietro la stessa tela trasparente ma tale da mostrarne solo l’ombra.

Altre ombre accompagnano il bambino.

Queste ultime appartengono a quel popolo “fantasma” cui egli appartiene ma che è imprigionato dietro la stessa tela.

Popolo che desidera condizioni di  vita apparentemente migliori e che cerca di attraversare il di qua della tela, proiettandosi verso la presunta realtà ricca che, in buona parte, nel corso dei secoli, lo ha sfrattato dal suo territorio.

Non prima, però, di averlo sfruttato.

Vicino a queste ombre della miseria, sono raffigurati alcuni volti di persone etnicamente differenti ma uguali per un aspetto, quello della dignità.

Purtroppo, i bisogni “fisiologici” degli uomini “civilizzati” hanno tolto loro buona parte dell’originario orgoglio, dominandoli al fine di sfruttarne le loro ricchezze e in cambio proponendogli l’inevitabile povertà.

Una povertà che non può essere quantificata solo con il denaro.

Il colore che li configura cola.

I loro contorni diventeranno sempre meno riconoscibili perché insieme al colore perdono il loro orgoglio.

Ma se è ovvia la cancellazione delle linee costruite con il lapis, diventa tragedia la perdita di un colore come l’olio che, per sua caratteristica fisico-chimica, dovrebbe durare per molti e molti secoli.

Queste gocce di colore cadono sulle teste decapitate degli esponenti di altre antiche popolazioni unite, purtroppo, dalla stessa sorte.

In questo caso, però, non è più la pittura bensì la materia a subirne le conseguenze.

In quest’ultimo caso, ho intenzionalmente considerato la dimensione materica perché la loro condizione di gruppi sociali, erroneamente definiti arcaici, identifica un’altra, ulteriore, dimensione.

L’opera, in tal modo, paventa il fantasma della loro possibile estinzione culturale, spirituale, morale.

La fratellanza tra i popoli dovrebbe essere una costante come la loro stessa interazione fisica e culturale.

La supremazia di un popolo su di un altro no.

L’omologazione è povertà.

Attenzione, però, perché anche “noi” semplici spettatori non siamo più in grado di stabilire a quale parte della tela appartenere.

E, se ne uscissimo completamente, le conseguenze sarebbero inimmaginabili.

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